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Quando il cibo diventa ossessione. Peccato di gola o Binge Eating?

“Quando arrivo a casa ceno, magari mangio anche un piatto abbondante di pasta per cui non ho bisogno di mangiare altro, ma poi apro il frigorifero e comincio a mangiare di tutto, a volte mi alzo anche di notte e seppure sono sola a casa, mi nascondo sotto alle coperte e continuo a mangiare. La mattina dopo, quando mi ricordo tutto quello che ho mangiato, mi vergogno e mi sento profondamente in colpa.” (Il caso di M.)

A tutti sarà capitato di cedere ad un pacco di patatine davanti ad un film, ad una mezza teglia di lasagne o di tiramisù (a seconda dei gusti), ad un mezzo chilo di pop corn misto a caramelle gommose quando si va al cinema senza che niente di tutto questo abbia a che fare con la fame. Non mi soffermerò sugli aspetti poco salutari di tale comportamento (ovvi ed evidenti) ma sulle sue caratteristiche. Spesso, in questi casi, non diciamo “avevo fame” ma “non lo faccio per fame ma per gola”. Solo al pensiero di ciò che ci piace le papille gustative vanno in visibilio, la salivazione aumenta ed il pensiero si focalizza solo sul cibo desiderato fino a quando non cediamo e plachiamo l’irruenza di questo sentire. Questo viene definito “peccato di gola” ed è ben diverso da un episodio di Binge, infatti, NON HA NESSUN IMPATTO SULLA VITA DELLA PERSONA ED E’ UN EPISODIO OCCASIONALE. (altro…)

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Se avete bisogno di un consiglio sincero chiedetelo ad un adolescente

Se non avete figli adolescenti vi basterà ricordare com’eravate allora, oppure fate come me, infilatevi nello spogliatoio femminile di una palestra e se un adolescente chiacchiera con una sua amica (come mi è successo ieri) fingetevi indifferenti e disinteressati ma non perdetevi una sola battuta di quella fantastica conversazione. (altro…)

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Sento contro devo

“Gli individui hanno in se stessi ampie risorse per auto-comprendersi e per modificare il loro concetto di sé, gli atteggiamenti di base e gli orientamenti comportamentali. Queste risorse possono emergere quando può essere fornito un clima definibile di atteggiamenti psicologici facilitanti.” (Carl Rogers)

Quando sentite di ragionare come segue potete contattare la rigidità e l’assolutismo di questi pensieri:

  • Non devo provare rabbia perché provare rabbia è sbagliato (non è vero che provare rabbia è sbagliato è sbagliato rompere le cose se sei arrabbiato);
  • Io non sono una persona gelosa (la gelosia è un sentimento assolutamente accettabile, è il comportamento che ne consegue a poter essere disfunzionale);
  • Devo comportarmi in modo sempre educato così posso piacere di più (mantenere questo standard di compiacenza è altamente frustrante anche perché impossibile);
  • Devo essere sempre felice e stare sempre bene (che fatica devo fare per non mostrare a me stesso e agli altri le mie fragilità?);
  • Devo mostrarmi sempre disponibile (non dire di no agli altri vuol dire dire di no a noi stessi!).

Questo articolo nasce da diversi spunti di riflessione che hanno preso vita nella stanza di terapia che condivido con i miei clienti.

La libertà, la possibilità di orientare il pensiero ed il comportamento sulla base di ciò che realmente sento e sono vengono sostituiti dal “devo”: devo fare questo, devo provare quest’altro, devo pensare in questo modo.

Questi “devo” hanno come nota di sottofondo la mancanza di fiducia nell’essere se stessi, nel sentirsi liberi di provare ciò che effettivamente si prova e di comportarsi come ci si sentirebbe di fare (quest’ultimo punto merita di essere chiarito per evitare fraintendimenti e più avanti lo farò).

Al contrario secondo Carl Rogers la persona è assolutamente degna di fiducia ed in grado di comprendere cosa è o non è buono per lei.

Nella persona difatti esiste una tendenza innata a realizzarsi, a regolare il proprio comportamento e a comprendersi, ad andare quindi verso un maggior senso di benessere.

“Quindi cosa ci fa arrivare a perdere queste capacità e la fiducia in noi stessi?

…AD UN CERTO PUNTO CI HANNO TIRATO UNA FREGATURA…”

Sin da piccoli i nostri genitori ci hanno detto cosa è meglio o giusto fare, ci hanno scoraggiati a provare sentimenti socialmente definiti come “negativi” come la rabbia, le gelosia e la tristezza; hanno pensato di “controllare” il nostro comportamento limitando la spontaneità presente in ognuno di noi per educarci e renderci più accettabili a loro ed al prossimo. Questo però ha tutta una serie di ripercussioni nella nostra vita da adulti ovvero che il nostro spontaneo e saggio sentire viene sostituito dai “devo” tramandati di generazione in generazione nelle nostre famiglie.

Non voglio essere fraintesa e non voglio con le mie parole dire che le persone devono sentirsi libere di comportarsi come meglio credono se questo significa rompere una porta in un momento di rabbia o consentire che un bambino tiri tutto il contenuto del suo piatto addosso ad un estraneo, al contrario, quello che ritengo debba essere insegnato, è il valore del rispetto di sé e dell’altro, che è ben lontano dal permettere all’altro di fare tutto ciò che desidera. Quindi io e l’altro siamo sullo stesso piano, io rispetto me stesso e ciò che sento stando però attento a rispettare l’altro.

E’ il comportamento che ha bisogno di essere contenuto, che ha bisogno di strutture e di regole non il sentimento.

Una mia cliente una volta mi ha detto “Io non mi posso più fidare di quello che sento perché negli anni ho fatto un sacco di casini assecondando quello che provavo”, non è assolutamente vero che è stato il sentire a far fare dei casini a questa persona ma la mancanza di contatto con i suoi sentimenti.

Facciamo un esempio:

Ho un forte senso di vuoto dentro di me e siccome è difficile per me starci in contatto ogni volta in cui accenno a sentirlo ricerco la compagnia di altre persone, va a finire che mi sento troppo dipendente dagli altri e che in realtà vorrei imparare a stare bene da sola e con me stessa.

Come potete vedere non è il contatto con questo sentimento che fa fare casino nella propria vita ma l’impossibilità di stare in contatto con sentimenti dolorosi. Se fossi in grado di stare in contatto con quello che provo e di tollerarlo mi sentirei gradualmente sempre più forte, più capace di reggere sentimenti spiacevoli e quindi di stare da sola senza l’affannosa ricerca di qualcuno che colmi il mio vuoto.

E’ ancora più complesso quando la persona arriva a dire qualcosa di questo tipo: “Non so cosa provo a riguardo e quindi devo comportarmi così (perché mi rende più accettabile, perché mi è sempre stato detto o insegnato)”. Questo è il caso in cui l’emozione non viene più contattata ed il comportamento è modulato solo sulla base di un pensiero proprio od altrui. La persona si sente persa e sente nella vita di aver preso strade che probabilmente non avrebbe percorso, l’angoscia diventa sempre più forte ed il disorientamento, la rabbia e la frustrazione diventano COMPRENSIBILMENTE i sentimenti prevalenti!

Il lavoro che in questo caso, nel percorso di psicoterapia, io mi prefiggo è quello di aiutare la persona su due fronti: il primo ad individuare questi pensieri rigidi su di sé e sugli altri e a metterli gradualmente in discussione ed il secondo di facilitare un sempre maggiore contatto con le emozioni che si presentano momento per momento.

La persona che si ritiene al centro della sua vita e delle sue decisioni si sente sempre più degna di fiducia e sente di potersi dirigere verso una fonte di soddisfacimento sempre maggiore provando verso sé stesso e verso gli altri un’accettazione positiva ed incondizionata. Le relazioni vengono vissute sempre più in armonia. Le situazioni vengono affrontate in modo creativo ed adattivo attraverso strategie sempre più efficaci.

Questo non è un traguardo che una volta raggiunto rimane statico anche perché sarebbe altrettanto rigido e significherebbe che la persona non si muove in base a quello che sente momento per momento e sulla base delle esperienze che la vita gli riserva, è al contrario un processo nel quale l’individuo è immerso in cui l’unico aspetto prevedibile del suo comportamento è che tenderà sempre verso la realizzazione di sé.

Nel processo della terapia è il clima di sicurezza e di libertà che l’approccio centrato sulla persona si propone di creare che consente all’individuo di riappropriarsi del contatto con sé e con i suoi bisogni.

A cura della Dott.ssa Irene Agostini
BIBLIOGRAFIA
Rogers C. R. (1951), Client-centered therapy, Houghton-Mifflin, Boston. Trad. It. (1997), La terapia centrata sul cliente, La nuova Italia, Roma.
Rogers C. R. (1989), Client-centered therapy, Houghton-Mifflin, Boston. Trad. It. (2007), Terapia centrata sul cliente, Edizioni la Meridiana, Molfetta (BA).
Rogers C. R., Kinget G. M. (1965), Psychothérapie et relations humaines Théorie et pratique de la thérapie non-directive, Editions Neuwelaerts, Louvain. Trad. It. (1970), Psicoterapia e relazioni umane Teoria e pratica della terapia non direttiva, Bollati Boringhieri, Torino.
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Ansia e Attacchi di panico

Chissà quante volte vi sarà capitato di leggere interviste ad attrici o attori di seconda o terza categoria  nelle pagine poco patinate di qualche rivista da ‘parrucchiere’, fateci caso, una delle domande più frequenti è “cos’è che ti crea ansia?”  o “hai mai avuto paura?” aimè spesso e volentieri le risposte sono un mix tra banali frasi da Bacio Perugina e macismi da Capitan America. In verità la realtà è ben distante (e per fortuna!) da tutto questo e c’è un mare che divide l’ANSIA dalla PAURA. So cosa state pensando: “forse è meglio leggere, tra una messa in piega ed un taglio old school, l’intervista poco vera di cui sopra rispetto a riflettere su questo argomento; del resto pensare alle mie paure mi genera paura e leggere delle mie ansie mi crea ansia!”.Forse in questa frase c’è anche del vero ma, come un vero giocatore di poker, io rilancio perché affrontare la lettura di queste poche righe che seguono può essere molto meno paurosa e ansiosa di quanto si possa credere…almeno spero! Prima di tutto c’è da fare una distinzione…

La prima distinzione da fare è tra PAURA e ANSIA, la prima fa parte delle emozioni di base dell’essere umano (che sono sei: paura, gioia, disgusto, rabbia, tristezza e sorpresa) ed è un’emozione primordiale ma cosa ancora più importante è che risulta essere legata ad un’esperienza reale e vissuta nel presente. L’ansia invece consiste in un generale senso di allarme che invade la vita della persona e che si esprime di fronte a pericoli temuti sia reali che potenziali. Quando si vive in uno stato di ansia senza che questa sia legata a qualche cosa di specifico si parla di ANSIA LIBERA.

Da un punto di vista filosofico la paura è radicata nel reale e l’ansia nell’immaginario.

L’espressione dell’ansia coinvolge non solo l’apparato psichico ma anche quello fisiologico attraverso una serie di sintomi come tachicardia, dispnea, tremori, sintomi gastroenterici ecc… che spesso sono i motivi per i quali il paziente arriva dal medico interpretando queste manifestazioni per un disturbo fisico (arrivano spesso al p. soccorso pazienti con dolore al petto che credono di avere un infarto in corso mentre invece stanno avendo un attacco di panico).

Un’ ulteriore precisazione da fare è che tutti noi conosciamo l’ansia, nel senso che nella nostra vita, in periodi specifici, in relazione a situazioni precise e con un diverso grado d’intensità, sperimentiamo questo stato emotivo ma non per questo abbiamo una patologia.

“Si parla di PATOLOGIA ANSIOSA quando la reazione di allarme insorge in assenza di uno stimolo adeguato e proporzionale oppure quando le risposte comportamentali si rivelano inadeguate o decisamente non vantaggiose per l’individuo (Lingiardi, 2004).”

ANSIA DI STATO e ANSIA DI TRATTO:

L’ANSIA DI STATO sta ad indicare un’esperienza ansiosa legata a circostanze che l’hanno evocata in modo contingente;

L’ANSIA DI TRATTO è invece una modalità ricorrente della persona di affrontare ogni situazione della sua vita, con un eccessivo grado di ansia.

Il PANICO è una manifestazione ansiosa terrorizzante che blocca la persona, la paralizza nel comportamento, la sconvolge sia da un punto di vista fisico che psichico, l’ATTACCO DI PANICO, più specificatamente, riguarda un periodo di tempo, generalmente 10 minuti, di paura intensa, terrore e sensazione di una catastrofe imminente o di morte, paura di perdere il controllo, paura di soffocare e dispnea che possono essere inaspettati, causati da una situazione specifica o sensibili ad alcune situazioni.

Alcune volte l’attacco di panico emerge in relazione a delle FOBIE SPECIFICHE come la paura di volare, dell’ascensore, del dentista, del sangue e verso alcuni animali o oggetti (solo per citarne alcune). In questi casi si ricorre tipicamente all’EVITAMENTO dello stimolo ansiogeno che non fa altro che rafforzare la patologia.

Di seguito vi riporto i criteri diagnostici per l’Attacco di panico ma evitate di farvi una diagnosi senza prima aver consultato un professionista!

Questa sintomatologia  deve essere accompagnata però dalla PAURA ANTICIPATORIA di sviluppare un successivo attacco o dalla paura delle conseguenze che questi attacchi possono avere sulla persona (ad es. di impazzire, di perdere il controllo).

Mentre per tutti i disturbi d’ansia e di attacco di panico è necessario l’intervento di un professionista (PSICHIATRA e PSICOTERAPEUTA), per tutte quelle manifestazioni che tipicamente ognuno di noi vive di ansia non patologica ecco alcuni accorgimenti:

  • La maggior parte delle situazioni per cui si sperimenta ansia collocate nel futuro NON SONO PREVEDIBILI né MODIFICABILI quindi provare ansia non diminuisce la probabilità che si verifichino, allentate perciò il vostro bisogno di controllare tutto, questo non sarà mai possibile!
  • Tenete un diario in cui prendere nota di quali situazioni tendono a far emergere gli stati ansiosi e cercate di comprendere qual è la vostra reale paura sottostante (ad esempio, avere tanta ansia perchè si deve affrontare un esame può celare un bisogno eccessivo di perfezionismo narcisistico che non mi consente di accettarmi con tutti i miei limiti, soprattutto nella possibilità di fallire) spesso pensieri disfunzionali o negazione di emozioni che fanno parte di noi trovano il loro canale di sfogo attraverso manifestazioni psico-somatiche.
  • Praticare attività fisica, anche una camminata per 30-40 minuti al giorno, serve a scaricare la tensione accumulata, aumenta lo stato di benessere psico-fisico e i livelli di autostima. Scegliete sempre qualcosa che vi piace altrimenti aggiungerete una nota negativa ad un’attività benefica;
  • Occhio all’alimentazione, soprattutto bevande e cibi stimolanti non fanno al vostro caso quindi limitate caffeina, nicotina e dolci.
  • Cercate di ritagliarvi uno spazio o un momento della giornata in cui rilassarvi facendo ciò che vi piace, coltivate i vostri interessi qualunque essi siano, vedere gli amici, leggere, girare per musei, ascoltare musica ecc…
  • Infine createvi uno spazio mentale, che sia un ricordo o un’immagine piacevole in cui potete rifugiarvi, uno spazio solo vostro in cui vi sentite al sicuro e nel quale nessuno, a parte voi, può entrare.
BIBLIOGRAFIA
  1. Lingiardi, 2004, La personalità e i suoi disturbi, Il Saggiatore, Milano.
Prefazione a cura di Francesco Setteceli
Articolo a cura della Dott.ssa Irene Agostini
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Il nostro secondo cervello, l’intestino.L’importanza di una alimentazione equilibrata anche nel trattamento dei disturbi psichici.

Cartesio può aver detto “Penso dunque sono” ma l’ha detto solo perché il suo intestino glielo ha consentito

(M. Gershon)

Si è sempre pensato che il cervello “cranico” avesse la predominanza su tutte le funzioni dell’organismo. Negli ultimi anni, grazie anche agli studi condotti da un medico americano, Michael Gershon, che nel 1998 ha pubblicato il libro “Il secondo cervello” , si afferma che il sistema gastroenterico è, appunto, un secondo cervello, dotato di un sistema nervoso autonomo che svolge funzioni molto complesse e, pur essendo molto lontano dal cervello “cranico”, è con lo stesso collegato dal nervo vago, che consente uno scambio di  informazioni bidirezionali ed una reciproca influenza. Quest’idea “innovativa” in realtà coincide con quanto sostenevano gli antichi egizi già quattromila anni fa, convinti com’erano che l’apparato digerente fosse la sede dei sentimenti. Oggi si parla di neurogastroenterologia  come scienza che studia il sistema nervoso enterico che  controlla l’apparato digestivo ed ha sede nel tessuto che riveste l’esofago, lo stomaco, l’intestino tenue ed il colon. Un secondo cervello considerato come un grande magazzino chimico in cui sono presenti tutti i neurotrasmettitori che operano all’interno del cervello cranico, dal che si deduce che quest’ultimo non sia il solo ambito in cui si formano stati d’animo e vengono prese decisioni e che esiste una stretta correlazione  tra disturbi gastrointestinali , disturbi  psicoemotivi e malattie degenerative come il morbo di Alzheimer e di Parkinson, l’autismo. Del resto è proprio nel secondo cervello che si produce il 90% della serotonina e circa la metà della dopamina. La serotonina,  chiamata l’ormone del buonumore, è il neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione del tono dell’umore, del sonno, della sessualità e dell’appetito ed è collegata a numerosi disturbi neuropsichiatrici come il disturbo bipolare, il disturbo ossessivo compulsivo, l’ansia, la depressione, la bulimia. La dopamina, definita l’ormone della dipendenza, è il neurotrasmettitore che interferisce con la nostra parte emozionale in quanto crea le sensazioni di soddisfazione, motivazione, gratificazione sessuale, stimola l’attenzione, la memoria, il comportamento. Definita della dipendenza in quanto, quando ci troviamo di fronte ad uno stato di benessere indotto (per esempio fumo e alcool), la tendenza è quella di cercare la fonte del benessere e di aumentarne la dose. Altra importante scoperta è che l’intestino funziona da potente fonte di produzione di benzodiazepine endogene, principio attivo che viene sfruttato, tra l’altro, per dormire, abbassare i livelli di ansia, superare lo stress, curare le fobie.

Nell’intestino sono inoltre localizzati trilioni di microrganismi (il c.d. microbiota meglio noto con il seppur superato nome di  flora batterica intestinale), dal peso di quasi 1,5 kg, strettamente integrati con lo stato di salute o di malattia individuale. Agiscono, infatti, come barriera contro i patogeni, regolano l’assorbimento dei nutrienti, la produzione dell’energia e lo sviluppo del sistema immunitario. Queste funzioni si definiscono fin dalla nascita (alcuni sostengono già nel ventre materno) e sono fortemente condizionate dal tipo di allattamento, materno o artificiale, che riceve il bambino e, successivamente, dall’alimentazione e dagli stili di vita. Ogni cambiamento dell’equilibrio della popolazione batterica intestinale influisce significativamente sull’andamento di molte malattie, compresa l’obesità, gli stati allergici, le malattie e le sindromi infiammatorie intestinali, le patologie metaboliche ed i disturbi psichiatrici.

Il nuovo test diagnostico del microbiota sviluppato recentemente  dall’Ospedale Bambino Gesù, fornisce una fotografia dell’intero ecosistema intestinale: da cosa è composto, come funziona, come si modifica, come si altera. Il test disegna una mappa genetica completa delle specie di batteri che compongono il microbiota, insieme ad una mappa biochimica, ovvero un quadro complessivo di come questi batteri interagiscono tra di loro e come si modificano in rapporto allo stato di salute o di malattia. Una mole di informazioni indispensabili per riequilibrare la popolazione dei microbi intestinali attraverso l’ottimizzazione della dieta, la somministrazione di probiotici, fino al trapianto di microbiota, quando necessario.

Se l’introduzione di probiotici nella dieta può aiutare a mantenere in buona salute il microbiota intestinale, prevenire e curare problemi di disbiosi o permeabilità intestinale, il futuro potrebbe risiedere nella psicobiotica. Intestino e cervello vanno di pari passo; se la flora batterica che alberga nell’intestino ha una buona composizione, il cervello si svilupperà in modo perfetto, sia durante la vita fetale, che nell’infanzia. I risultati dello studio che ha portato a questa scoperta sono stati presentati lo scorso mese di ottobre durante il 47° Congresso della Società italiana di psichiatria (Sip) a Giardini Naxos da John F. Cryan, neuroscienziato della University College Cork. La “psicobiotica”, infatti, analizza il rapporto tra i microorganismi che vivono nel nostro corpo, quelli intestinali in particolare, e i disturbi mentali. Questo inedito legame è ricchissimo di implicazioni, sia a livello terapeutico che preventivo. Secondo lo studio il rapporto tra microbiota intestinale e psiche sarebbe dovuto al fatto che i batteri presenti nell’intestino, producendo molto Dna, sintetizzano molecole che, per un complesso meccanismo di mediazione immunitario, ormonale e neurale, modulano lo sviluppo del cervello sia nella vita fetale sia dopo. La novità sta proprio nell’aver chiarito in buona parte in cosa consiste questo meccanismo. Scoprendo anche correlazioni con l’autismo nei bambini.

Con questa scoperta si aprono possibilità interessantissime e rivoluzionarie dal punto di vista clinico, in quanto si potranno trattare, in un prossimo futuro, i disturbi cerebrali e mentali anche attraverso la modificazione della flora batterica intestinale. Non è fantascienza, ma è la conseguenza diretta di evidenze scientifiche.

A cura della Dott.ssa Elena Franci
Bibliografia
  1. Gershon, (1998), “Il secondo cervello”, Ed. UTET
  2. A. Almodovar, (2014), “Intestino, secondo cervello”, Ed. Antonio Vallardi
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