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Cosa ha significato la terapia per N.

Cara Irene,
sono arrivata da te in un momento di totale confusione. Non riuscivo a mettere a fuoco le mie emozioni, a dargli un nome e un significato. Durante il nostro percorso sono “entrata” in molte emozioni, in molti ricordi, in molte dinamiche che prima di allora non avevo compreso del tutto. La cosa che ho imparato e che più mi sta aiutando nella mia vita quotidiana è il concetto che dietro la rabbia c’è sempre una ferita, da accogliere e capire. Oggi riesco a non colpevolizzarmi quando mi arrabbio, a cercare di capire quale è la ferita in quel momento. Certo, vorrei riuscire a capirlo prima di esplodere, a volte riesco, a volte no, ma va bene così. Mi sento una mamma più consapevole, mi impegno molto a capire le emozioni di Ettore e a non giudicarle. Anche in questo caso cerco di migliorare ogni giorno.
Per me questo percorso ha significato molto, ho trovato in te una psicoterapeuta molto equilibrata ed affidabile, con quel bellissimo sorriso ad accogliermi sempre. Semmai dovessi sentire ancora la necessità di un supporto, certamente chiamerei te.
Grazie mille Irene.
Ti abbraccio.

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Paura di volare, io non ce l’ho più!

A cura della Dott.ssa Irene Agostini

C’è solo un modo per SENTIRE davvero di non aver più paura di volare o quanto meno di non esserne più terrorizzati. So cosa significa cominciare giorni prima ad immaginare il viaggio, a pensarci sopra quel “trabiccolo” sospesi a migliaia di chilometri da terra, vedere nel cielo ogni aereo che passa e avere già le mani sudate, non riuscire a prendere sonno di notte non sapendo se davvero riusciremo a farcela a salire sopra quella scatola chiusa. Il mio rapporto con l’aereo è stato così per oltre dieci anni ma dalla mia avevo una cosa che nessuno avrebbe mai potuto cambiare: la curiosità di vedere il mondo e quindi, non solo lo prendevo, ma sopportavo ore ore di lunghissimi viaggi. Il decollo lo affrontavo stordita da gocce di calmante e la crociera era un incubo in cui controllare ogni più piccolo cambiamento di rumore o di velocità del velivolo. Nel corso di questa lunga “storia d’amore” con l’oggetto in questione due sono state le informazioni importanti che ho ricevuto (ovviamente non quelle risolutive).

  1. L’aereo ha da fà rumore, anche se questo cambia, ha da fà rumore altrimenti vuol dire che si è spento tutto e tanti cari saluti. Almeno il rumore era diventato mio amico, qualunque esso fosse!
  2. “Le turbolenze sono come le buche delle strade, le macchine prendono le buche? Ecco, le prende anche l’aereo, è la normalità!” (hostess volo di ritorno da Sharm)

Ovviamente queste sono state informazioni utili ma non risolutive, poi un giorno mi imbatto (volutamente) in un libro in cui ti spiegano come non avere più paura di volare; io ovviamente non l’ho letto tutto, mi ero fermata al primo insight che per me era stato fondamentale (solo per continuare a sostenere la mia tesi, CHE FACEVO BENE AD AVERE PAURA DI VOLARE). Non è la PROBABILITA’ che l’aereo cada che si fa paura altrimenti, logicamente, ci passerebbe a tutti con i dati alla mano sulle percentuali di incidenti messi a confronto tra le macchine e l’elefante del cielo ma la POSSIBILITA’. SI LA POSSIBILITA’! E’ vero, se ci pensate, nessuno potrà mai rassicurarci sulla possibilità, la possibilità c’è!

Detto questo e, scherzi a parte, il processo di me è stato davvero lungo, tortuoso e lento

Ma c’è stato un volo, l’ultimo di andata questa estate in cui sono salita e qualcosa era cambiato ho SENTITO e NON CAPITO che dovevo mollare tutto questo controllo, INUTILE, avrei potuto controllare per ore hostess, stuart, i loro volti, i cambi di velocità, ogni singolo rumore. Una volta lassù io non avrei potuto fare niente, anzi avrei potuto solo fare una cosa GODERMI IL VIAGGIO sapendo che in caso di pericolo NON AVREI POTUTO FARE NIENTE.

L’ansia è incredibilmente diminuita e anzi ho sentito nuovamente il piacere e l’eccitazione di stare lì, ferma, seduta a farmi accompagnare in questo viaggio godendomi un bel film o un bel libro.

L’accettazione massima dell’impotenza di fronte alla possibilità di morire (ovviamente con l’illusoria speranza che questo non accada mai perchè io VOGLIO VIVERE)

E se voglio vivere, non voglio rinunciare alla mia passione che è vedere il mondo e allora devo correre qualche rischio, anche grande così! D’altronde non è quello che facciamo ogni giorno quando scendiamo dal letto e cominciamo a vivere le nostre giornate?

Buone riflessioni e buon lavoro a tutti!

 

 

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Sento contro devo

“Gli individui hanno in se stessi ampie risorse per auto-comprendersi e per modificare il loro concetto di sé, gli atteggiamenti di base e gli orientamenti comportamentali. Queste risorse possono emergere quando può essere fornito un clima definibile di atteggiamenti psicologici facilitanti.” (Carl Rogers)

Quando sentite di ragionare come segue potete contattare la rigidità e l’assolutismo di questi pensieri:

  • Non devo provare rabbia perché provare rabbia è sbagliato (non è vero che provare rabbia è sbagliato è sbagliato rompere le cose se sei arrabbiato);
  • Io non sono una persona gelosa (la gelosia è un sentimento assolutamente accettabile, è il comportamento che ne consegue a poter essere disfunzionale);
  • Devo comportarmi in modo sempre educato così posso piacere di più (mantenere questo standard di compiacenza è altamente frustrante anche perché impossibile);
  • Devo essere sempre felice e stare sempre bene (che fatica devo fare per non mostrare a me stesso e agli altri le mie fragilità?);
  • Devo mostrarmi sempre disponibile (non dire di no agli altri vuol dire dire di no a noi stessi!).

Questo articolo nasce da diversi spunti di riflessione che hanno preso vita nella stanza di terapia che condivido con i miei clienti.

La libertà, la possibilità di orientare il pensiero ed il comportamento sulla base di ciò che realmente sento e sono vengono sostituiti dal “devo”: devo fare questo, devo provare quest’altro, devo pensare in questo modo.

Questi “devo” hanno come nota di sottofondo la mancanza di fiducia nell’essere se stessi, nel sentirsi liberi di provare ciò che effettivamente si prova e di comportarsi come ci si sentirebbe di fare (quest’ultimo punto merita di essere chiarito per evitare fraintendimenti e più avanti lo farò).

Al contrario secondo Carl Rogers la persona è assolutamente degna di fiducia ed in grado di comprendere cosa è o non è buono per lei.

Nella persona difatti esiste una tendenza innata a realizzarsi, a regolare il proprio comportamento e a comprendersi, ad andare quindi verso un maggior senso di benessere.

“Quindi cosa ci fa arrivare a perdere queste capacità e la fiducia in noi stessi?

…AD UN CERTO PUNTO CI HANNO TIRATO UNA FREGATURA…”

Sin da piccoli i nostri genitori ci hanno detto cosa è meglio o giusto fare, ci hanno scoraggiati a provare sentimenti socialmente definiti come “negativi” come la rabbia, le gelosia e la tristezza; hanno pensato di “controllare” il nostro comportamento limitando la spontaneità presente in ognuno di noi per educarci e renderci più accettabili a loro ed al prossimo. Questo però ha tutta una serie di ripercussioni nella nostra vita da adulti ovvero che il nostro spontaneo e saggio sentire viene sostituito dai “devo” tramandati di generazione in generazione nelle nostre famiglie.

Non voglio essere fraintesa e non voglio con le mie parole dire che le persone devono sentirsi libere di comportarsi come meglio credono se questo significa rompere una porta in un momento di rabbia o consentire che un bambino tiri tutto il contenuto del suo piatto addosso ad un estraneo, al contrario, quello che ritengo debba essere insegnato, è il valore del rispetto di sé e dell’altro, che è ben lontano dal permettere all’altro di fare tutto ciò che desidera. Quindi io e l’altro siamo sullo stesso piano, io rispetto me stesso e ciò che sento stando però attento a rispettare l’altro.

E’ il comportamento che ha bisogno di essere contenuto, che ha bisogno di strutture e di regole non il sentimento.

Una mia cliente una volta mi ha detto “Io non mi posso più fidare di quello che sento perché negli anni ho fatto un sacco di casini assecondando quello che provavo”, non è assolutamente vero che è stato il sentire a far fare dei casini a questa persona ma la mancanza di contatto con i suoi sentimenti.

Facciamo un esempio:

Ho un forte senso di vuoto dentro di me e siccome è difficile per me starci in contatto ogni volta in cui accenno a sentirlo ricerco la compagnia di altre persone, va a finire che mi sento troppo dipendente dagli altri e che in realtà vorrei imparare a stare bene da sola e con me stessa.

Come potete vedere non è il contatto con questo sentimento che fa fare casino nella propria vita ma l’impossibilità di stare in contatto con sentimenti dolorosi. Se fossi in grado di stare in contatto con quello che provo e di tollerarlo mi sentirei gradualmente sempre più forte, più capace di reggere sentimenti spiacevoli e quindi di stare da sola senza l’affannosa ricerca di qualcuno che colmi il mio vuoto.

E’ ancora più complesso quando la persona arriva a dire qualcosa di questo tipo: “Non so cosa provo a riguardo e quindi devo comportarmi così (perché mi rende più accettabile, perché mi è sempre stato detto o insegnato)”. Questo è il caso in cui l’emozione non viene più contattata ed il comportamento è modulato solo sulla base di un pensiero proprio od altrui. La persona si sente persa e sente nella vita di aver preso strade che probabilmente non avrebbe percorso, l’angoscia diventa sempre più forte ed il disorientamento, la rabbia e la frustrazione diventano COMPRENSIBILMENTE i sentimenti prevalenti!

Il lavoro che in questo caso, nel percorso di psicoterapia, io mi prefiggo è quello di aiutare la persona su due fronti: il primo ad individuare questi pensieri rigidi su di sé e sugli altri e a metterli gradualmente in discussione ed il secondo di facilitare un sempre maggiore contatto con le emozioni che si presentano momento per momento.

La persona che si ritiene al centro della sua vita e delle sue decisioni si sente sempre più degna di fiducia e sente di potersi dirigere verso una fonte di soddisfacimento sempre maggiore provando verso sé stesso e verso gli altri un’accettazione positiva ed incondizionata. Le relazioni vengono vissute sempre più in armonia. Le situazioni vengono affrontate in modo creativo ed adattivo attraverso strategie sempre più efficaci.

Questo non è un traguardo che una volta raggiunto rimane statico anche perché sarebbe altrettanto rigido e significherebbe che la persona non si muove in base a quello che sente momento per momento e sulla base delle esperienze che la vita gli riserva, è al contrario un processo nel quale l’individuo è immerso in cui l’unico aspetto prevedibile del suo comportamento è che tenderà sempre verso la realizzazione di sé.

Nel processo della terapia è il clima di sicurezza e di libertà che l’approccio centrato sulla persona si propone di creare che consente all’individuo di riappropriarsi del contatto con sé e con i suoi bisogni.

A cura della Dott.ssa Irene Agostini
BIBLIOGRAFIA
Rogers C. R. (1951), Client-centered therapy, Houghton-Mifflin, Boston. Trad. It. (1997), La terapia centrata sul cliente, La nuova Italia, Roma.
Rogers C. R. (1989), Client-centered therapy, Houghton-Mifflin, Boston. Trad. It. (2007), Terapia centrata sul cliente, Edizioni la Meridiana, Molfetta (BA).
Rogers C. R., Kinget G. M. (1965), Psychothérapie et relations humaines Théorie et pratique de la thérapie non-directive, Editions Neuwelaerts, Louvain. Trad. It. (1970), Psicoterapia e relazioni umane Teoria e pratica della terapia non direttiva, Bollati Boringhieri, Torino.
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